mercoledì 22 aprile 2009

Principi attivi: tre storie di salute ed immigrazione.

A fronte di giornali che vengono meno alla propria missione informativa per occuparsi solo di spettacolo e reality, ce ne sono altri più sconosciuti che ogni tanto piazzano sulle loro pagine qualche perla di giornalismo che ci dà una spinta a continuare questo mestiere.

E' il caso di "
Principi Attivi: tre storie di salute ed immigrazione": una piccola inchiesta condotta dagli studenti dell'università di Pavia condotta dalle pagine del loro mensile "Inchiostro" sulla condizione degli immigrati minacciati dall'attuazione del decreto legge che obbligherebbe i medici a denunciare la loro condizione di clandestinità in caso di ricorso alle cure mediche. A me é piaciuta parecchio, e la voglio condividere con voi. Un grazie a Maria Luisa Fonte, Francesco Macca, "Strepto" e "Sporo" (che ne sono autori tutti insieme) per avermi fatto leggere davvero qualcosa di bello. Continuate cosi' ragazzi!

PRINCIPI ATTIVI: TRE STORIE DI SALUTE ED IMMIGRAZIONE

“Ogni individuo ha il diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari, ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.” (Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, Art. 25)

Forse ci eravamo illusi nell’accusare la Medicina di occuparsi di malattie, più che di malati. Di classificazioni e linee guida, più che di persone. Ci sbagliavamo. Oggi la Medicina si occupa di codici e esenzioni e DRG (Diagnosis-related group), per il contenimento della spesa sanitaria. E si occupa di farmaci, di princìpi attivi più o meno griffati, di dosaggi. Ma dietro diagnosi e prescrizioni continuano ad agitarsi storie, corpi. Dolori. Il tentativo di intaccare il diritto alla salute attraverso i tristemente noti emendamenti leghisti al ddl sicurezza ha risvegliato un po’ le coscienze: medici e personale sanitario stanno facendo sentire la propria voce a favore del diritto alla salute; il nemico naturale è il ddl sicurezza, col reato di clandestinità e le altre perle di cui ora tanto si parla (in ritardo, e troppo spesso strumentalmente).


E allora ecco tre storie, per cui ringrazio un medico che ancora sa occuparsi dei “princìpi attivi” della propria professione, oltre a quelli dei farmaci. Lavora come volontario presso l’Ambulatorio Caritas di Pavia; un posto che, ai tempi del reato di clandestinità e dei medici che si rifiutano di fare le spie, rappresenta un potenziale ricettacolo di malfattori. Sperando che continuino nel loro “crimine”.


INSULINA


In Via della Povertà, oltre ad Einstein che suona il violino elettrico, c’è K che suona l’organetto. K vive due condizioni che insieme danno una miscela esplosiva nell’Italia d’oggi: infatti K è diabetico, ed è romeno. Prima dell’entrata della Romania nell’UE (2007), K aveva il suo buon codice STP (Straniero Temporaneamente Presente) che gli permetteva di ottenere l’impegnativa per andare in ospedale a fare controlli glicemici e ottenere la richiesta per l’insulina. Poi, il limbo: la situazione di “neocomunitario” non gli permette più di aver diritto all’STP, e la mancanza del benedetto permesso di soggiorno non gli permette di iscriversi al sistema sanitario nazionale.

Ma il diabete non è sottile come la burocrazia, malattia tutta italiana; qualcosa K la deve pur fare. E allora si arrabatta alla bell’e meglio, si rivolge ai medici volontari dell’Ambulatorio Caritas e a medici “amici” dell’ospedale: tra dosaggi alchemici ed improvvisati, K riesce a mettere in circolo l’insulina necessaria alla sopravvivenza. Ma il diabete è una malattia seria: oltre alle dosi di insulina, ci vogliono i controlli, i glucometri con le striscette quasi sempre non compatibili, le siringhette da 1ml. Soprattutto, ci vuole continuità terapeutica. Le mancanze si fanno sentire: K soffre diverse punte di iperglicemia, fino al coma diabetico. Poi, il cerotto sulla burocrazia è un nuovo codice, ENI (Europeo Non Iscritto), che permette di riagganciare K alla dovuta serie di controlli, striscette e siringhette.


Restano tanti problemi, il costo dei ticket che il gracchiare di un organetto non riesce a coprire, l’educazione alimentare e la prevenzione delle complicanze… Ma almeno K oggi riesce a sopravvivere su Via della Povertà, col suo diabete e la sua romenità. Domanda: si sarebbe presentato in ospedale ad elemosinare insulina, K, se ci fosse stato il rischio di essere denunciato per il mancato permesso di soggiorno (che è un po’ come avere la peste, nell’Italia della Lega)?


PERMETRINA

I sacri testi dicono che “prolifera negli ambienti con scarsa igiene collettiva”; e Via della Povertà è uno di questi. E la SuperHuman Crew delle ronde può difendere le strade dalla criminalità etnicizzata ad hoc, ma contro di lui può poco. S è una delle sue vittime. Ma tranquilli, nessun panorama apocalittico all’orizzonte, nessuna epidemia di TBC o lebbra. Il nemico di S, piccolo e bastardo, è più banale, per quanto molesto: il Sarcoptes scabiei, l’agente eziologico della scabbia.

Non si sa cosa faccia S per vivere, né dove passi la notte. La fretta e il divario linguistico son carogne, e allora le prime a balzare agli occhi dei medici sono le macchie: quelle rosse e in rilievo sull’addome, sulle mani, sui polsi. E giorni e giorni a grattarsi, aspettando che passi. Sarà la polvere, sarà un’allergia, sarà. Andiamo dal medico, si sarà detto S. Non ha il permesso di soggiorno, ma perché dovrebbe temere un medico? E i medici volontari per un po’ brancolano nel buio, poi l’illuminazione e un po’ di sano pregiudizio (che in questo caso è un ragionamento di Sanità pubblica): “Scusa, ma dove vive S?” “non si sa” “come non si sa” “bazzica Via della Povertà” “ma vuoi vedere che è scabbia?”.


La scabbia contagia in primo luogo la mente dei medici: tornati a casa, ci si sente uno strano prurito psicologico su tutto il corpo, anche dopo ripetute docce, e viene l’insano rimorso di non aver messo i guanti prima di stringere la mano a S, ogni volta che torna a prendere il tubetto di permetrina da spalmare sulle zone colpite per diverse settimane. L’effetto terapeutico della crema, per S, è nella sensazione di sollievo dato dal tubetto fresco e dalla sua lingua semisolida sulla pelle rossa rovente.


Ora, se S avesse paura di presentarsi ai medici per il farmaco antiscabbia, cosa succederebbe? Rischio di diffusione del temibile Sarcoptes nelle nostre città, nelle nostre linde case? Forse. Soprattutto, S continuerebbe a riempirsi di piccoli bastardi, a grattarsi; i graffi si infetterebbero con bestiacce ancor più piccole e bastarde, i pochi contatti di S lo eviterebbero del tutto… Soprattutto, S continuerebbe a star male e isolato su Via della Povertà. Malato di paura.


DICLOFENAC SODICO

Y si presenta in Ambulatorio letteralmente piegato a metà. Il medico parte con la carica di congetture: “Sei caduto? Incidente stradale? Ti hanno picchiato? Incidente sul lavoro?...”. Y è tunisino ma mastica l’italiano, a “incidente sul lavoro?” fa di sì con la testa. “Da dove sei caduto?” “No, no caduto; è stato cinquantachili”.

Servono minuti di dialogo sconclusionato per comprendere che il “cinquantachili” è il sacco di cemento da 50kg che Y stava sollevando; l’ennesimo, ma stavolta qualcosa, nel dorso, non ha retto. Y lavora in uno dei tanti cantieri di Via della Povertà, lo accompagna il collega Buon Samaritano, ancora sporco di calce. La prima diagnosi è di “lombosciatalgia” e l’iniezione di diclofenac sodico calma ben poco il dolore. Dopo la doverosa trafila medica tra codici e codicilli, finalmente gli occhi di un ortopedico fanno calare la sentenza: ernia discale.


Y passerà due mesi a letto, che franeranno sulla sua vita con la perdita di casa & lavoro. E problema diventano i 3€ per il diclofenac, problema è raggiungere la farmacia o l’Ambulatorio per recuperarlo; problema è riuscire a mangiare due volte al giorno, scendere le scale della casa in cui è ospitato; problema è doversi comprare la biancheria pulita per la visita medica, e quella puzza di alcol ai controlli: “Ma bevi?” “sì, vino, la sera” “ma lo sai che ti fa male?” “sì, ma a me serve per sostenermi”. A conti fatti, le calorie di un litro di vino costano meno dell’equivalente in cibo.


Ammalarsi di povertà è come cadere in una trappola; ma se Y, assunto in nero, avesse temuto di presentarsi dal medico piegato a metà, forse avrebbe perso qualcos’altro, oltre a casa & lavoro.


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Dopo aver letto questo, fa piacere leggere su Repubblica che si moltiplicano le iniziative di medici, ordini professionali e singole regioni contro questo decreto ancora in discussione.

L'ultima di queste é la spilletta "Io non denuncio" che i medici si appenderanno sul camice per tranquillizzare gli immigrati che a loro si rivolgono per le cure. Un appello a tutti i medici: non denunciate!


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