Ieri sono finito in mezzo ad una di quelle brutte storie di degrado che ti lasciano un po' con l'amaro in bocca, perchè ti fanno rendere conto che a volte vicino a te vivono frammenti di umanità spezzata che normalmente nemmeno vedi.... Ne ho tratto una lezione interessante di come fare la cronaca nera, anche se ho dovuto cedere un po' su alcune mie posizioni. Ma andiamo con ordine: sul Giorno di Milano a pagina X oggi troverete questo:
Maltrattamenti - Denunciato un pregiudicato
MAMMA E FIGLIA CHIUSE IN GABBIA
L'ex convivente le teneva segregate nel soppalco di un'officina
di TINO FIAMMETTA
MILANO —LE HA TENUTE chiuse in una gabbia metallica, sul soppalco di un’officina. Nutrendole con rosticceria cinese e panini. Per quindici lunghissimi giorni. Questo è almeno quanto denuncia una giovane donna 22enne che accusa l’ex convivente di averla maltrattata e picchiata insieme alla figlia di tre anni. Il presunto bruto è un pregiudicato di 37 anni uscito dal carcere con l'indulto dopo una condanna per rapina, che è stato denunciato per maltrattamenti in famiglia, violenza privata e sequestro di persona.
LE RAGIONI di questo violento dissidio familiare non sono stato spiegate da nessuno. Nè dalle vittime nè dall’indagato. Ma c’è da credere che si tratti di una storia privata logorata e degenerata fra ex conviventi. Le indagini degli agenti del commissariato Sempione sono ancora alle primissime battute e per adesso a fare testo sono solo le parole della giovane che ha anche rimediato qualche violento ceffone tanto da esibire un referto medico di tre giorni di prognosi anche per la bambina. All’inizio dell’estate la donna era riuscita a liberarsi del suo ex convivente trovando rifugio in una comunità protetta ma l’uomo, che si chiama Andrea P., aveva scovato la comunità e aveva costretto l’ex convivente con la bambina a seguirlo. La meta era un’ officina meccanica di Garbagnate di proprietà di un amico assente per ferie (che si è sempre opposto alle scelte di Andrea). All’interno dell’officina la donna e la figlia sarebbero state segregate dentro una gabbia metallica di 4 metri quadrati. Da cui sarebbe scappato approfittando di un momento di distrazione del suo aguzzino.
A far intervenire la polizia è stata l'ex compagna che alla fine si è recata al commissariato Sempione per sporgere denuncia. Gli agenti si sono presentati in viale Coni Zugna in casa della suocera dove si era rifugiato Andrea. E dove - sempre secondo la denuncia - era riuscito a tenere chiusa a chiave in una stanza l’ex convivente con la bambina.
QUANDO gli agenti sono arrivati nell'appartamento, in viale Coni Zugna, l'uomo ha cercato di scappare, da una finestra del suo appartamento, al secondo piano di un palazzo, attraverso il ponteggio messo in piedi dagli operai per la ristrutturazione della facciata. Andrea P. è stato bloccato nei pressi di viale Papiniano dopo un lungo inseguimento a piedi, quando, alla vista degli agenti, ha cercato di scappare e poi per strada.La vicenda, dai contorni oscuri e tutta da chiarire è in corso di valutazione da parte dell' autorità giudiziaria. Il sostituto procuratore di turno, che sulle prime ha deciso per una denuncia in stato di libertà, ha passato l'inchiesta al pm che ha in carico il fascicolo sul caso di maltrattamento alla base dell' allontanamento dell'ex compagna e delle bimba, che ha tre anni.
Fin qui i fatti: ovviamente tutti i nomi citati come potrete immaginare sono nomi di fantasia.
Il punto è che se avete letto bene dovrebbero venirvi almeno tre domande in testa...
...nulla? Riproviamo...
1) Quali sono le ragioni del gesto? (questa era facile...)
2) Cos'è successo fuori dall'officina in quei 13 giorni? Nessuno ha fatto niente per cercare questa donna?
3) Perchè Andrea tra tutti i posti dove può scappare sceglie proprio la casa della madre di lei, che in teoria dovrebbe solo odiarlo?
E' per avere la risposta a queste domande che mandano me nel pomeriggio a cercare la ragazza o la madre, con in mano nessun dato salvo un indirizzo di casa che arrivati sul luogo si rivela anche inesistente!
La trovo grazie al particolare dell'impalcatura: ci sono solo 2 edifici nella via in cui stanno facendo dei lavori, e con un minimo di domande ben dosate a chi entra e a chi esce ("E' qui che sono venuti i carabinieri ieri mattina...?") riesco alla fine a trovare la famosa "suocera", la madre della ragazza che ha fatto la denuncia.
All'inizio è diffidente: "Perchè volete sapere queste cose? Cosa vi interessa? Questo non è diritto di cronaca!". Poi piano piano si apre, complici due palesi violazioni da parte mia del codice di "Ciò che ogni buon giornalista non dovrebbe mai fare". La prima è il fatto di dirle subito dopo essermi presentato come giornalista di non lasciarmi nè nomi nè cognomi di nessun genere. Lei si stupisce. La seconda è che le metto in mano l'agenzia con cui sono arrivato lì, e le spiego tutto il percorso da cui nasce ( "questa la dà la polizia la mattina sa, c'è l'hanno tutti ormai") e come sono riuscito a trovarla.
E comincia a parlare. E' un viaggio in discesa senza paracadute, nella storia di una famiglia disastrata dove la normalità è uscita di casa da molti tempo. Genitori divorziati, figlie sbandate, droga, una bambina innocente nel mezzo, carceri, violenze, ambiguità ripetute e un caso che sembra un esempio da manuale della "sindrome di Stoccolma" con la ragazza che denuncia più volte il compagno per maltrattamenti salvo ritrattare sempre tutto e tornare a cercarlo. La madre è onesta con me, anche se nasconde alcuni particolari però facilmente intuibili. Parla della figlia con affetto e rassegnazione insieme, tra una telefonata e l'altra di gente che la chiama sempre per questa storia. Sa che l'ha persa tempo fa, si giustifica con me per quello che ha fatto ("Era il mio dovere di madre"), e finisco per farle quasi da confidente. Non sa nemmeno dove sia al momento: l'hanno riportata in una comunità, ma nessuno le ha detto dove.
Tante sigarette, un pranzo cinese e poi ci lasciamo.
Tornato in redazione scoppia il caos. Non credo che si aspettassero in molti che sarei riuscito a tornare con qualcosa, ma la storia che ho sottomano cambia un po' i loro piani. Lo spazio in pagina c'è, il difficile è metterla giù. E' una storia dove deve risaltare l'ambiguità dei gesti di tutti, ma senza dare del delinquente o del balordo a nessuno. Queste infatti sono le storie dove rischiare una querela per una parola sbagliata è più semplice che mai. Senza contare che ho promesso alla signora che non l'avrei citata nel pezzo.
Tra il sindacalista che urla "Così imparate a mandarci uno stagista!" dimenticando che ho già fatto cronaca, e anche parecchia, e i capiredattori che decidono come buttarla giù, si arriva al compromesso finale: tutti i nomi ed indirizzi della pagina verranno cancellati o sostituiti con nomi di fantasia, e il pezzo verrà fatto in forma di intervista alla madre di lei citata come tale ma in questo modo irriconoscibile:
Quello che ne esce è questo:
di ALESSANDRO GIGANTE
— MILANO — E' UNA STORIA dove il confine tra la verità e la bugia è molto sottile, quella del supposto sequestro emerso ieri, come si evince dalle parole di G.F, madre della ragazza. Denunce, ritrattamenti, comunità, fino al triste epilogo di lunedì mattina.
Com’era quel ragazzo?
«Ero sempre stata diffidente: non mi piaceva. Era tossicodipendente, si faceva di cocaina, e nei 5-6 anni in cui sono stati insieme è successo di tutto».
Cioè?
«Denunce di maltrattamenti subiti da parte di mia figlia, che poi puntualmente ritrattava tutto e tornava a cercarlo. Fughe insieme, durante le quali non li vedevo né li sentivo per giorni».
Poi la nascita di quella bambina...
«...e lei che di nuovo, meno di un mese dopo, lo rimanda in carcere. E poi torna di nuovo a cercarlo».
Qui però entrano in scena i servizi sociali...
«Sì. Proibiscono a lui con un’ordinanza di vedere sia lei che la bambina, fino alla completa disintossicazione. L’assistente sociale era categorico, anche brutale. Ma penso si vedessero di nascosto, si cercavano a vicenda».
E poi cosa cambia?
«Che anche lei viene sistemata con la bambina in una comunità protetta. Dopo un po’ lo chiama chiedendogli di portarla via, dicendo che lì li trattavano male».
A lei non disse niente?
«No, lo seppi il giorno dopo quando fecero la denuncia dalla comunità, non vedendola tornare».
Poi 13 giorni di buio...
«Sì, non seppi nulla per tutto quel periodo. Finché domenica sera,rincasando, me li trovai a casa tutti e tre».
Cosa accadde?
«Mia figlia mi disse che avevano deciso di andarsene via insieme. Poi, non appena lui si allontanò, cambiò versione, dicendo che lui l’aveva tenuta sequestrata insieme alla bambina».
E lì chiamò la polizia?
«No. Si fermarono a dormire lì, e fu lei stessa la mattina dopo ad alzarsi presto e ad andare in commissariato, per l’ennesima denuncia. Poi mi ritrovai i poliziotti in casa: lui tentò di scappare, e il resto lo sapete».
Cosa ne pensa di tutto quello che è successo?
«Non lo so. Forse è stata colpa dell’assistente sociale troppo severo, forse di lui o addirittura di lei. So solo che qualsiasi cosa succeda, io continuerò sempre a voler bene a mia figlia».
L'ultima frase era il mio piccolo chiedere scusa per averla citata lo stesso, anche se in maniera irriconoscibile. Mi sono chiesto cosa sarebbe successo se la figlia avesse letto questo articolo, e avesse trovato le dichiarazioni della madre. Volevo che non la considerasse una traditrice, ma che sapesse soltanto che le voleva bene. Dalla nostra chiacchierata e da come avesse tentato seppur goffamente di proteggerla, si era capito bene...
Il Giorno nella cronaca non usa il passato remoto (a me piace molto nei racconti, ma ognuno ha le sue regole), e così dopo i vari passaggi dei controllori di rito il pezzo oggi lo trovate così:
La testimonianza
DEGRADO, DROGA E VIOLENZA. "MIA FIGLIA, QUEL RAGAZZO, E LE MEZZE VERITA' CHE NON SO".
di ALESSANDRO GIGANTE
— MILANO — E' UNA STORIA di degrado, di droga e violenza dove è difficile capire dove stia la verità, quella del presunto sequestro scoperto dopo la denuncia della giovane vittima. Denunce, ripensamenti, comunità, fino all’epilogo di lunedì mattina. A parlare è la madre della ragazza.
Com’era il convivente di sua figlia?
«Ero sempre stata diffidente: non mi piaceva. Era tossicodipendente, si faceva di cocaina, e nei 5-6 anni in cui sono stati insieme è successo di tutto».
Cioè?
«Denunce di maltrattamenti subiti da parte di mia figlia, che poi puntualmente ritrattava tutto e tornava a cercarlo. Fughe insieme, durante le quali non li vedevo né li sentivo per giorni».
Poi la nascita di quella bambina...
«E lei che di nuovo, meno di un mese dopo, lo rimanda in carcere. E poi torna di nuovo a cercarlo».
Qui però entrano in scena i servizi sociali...
«Sì. Proibiscono a lui con un’ordinanza di vedere sia lei che la bambina, fino alla completa disintossicazione. L’assistente sociale era categorico, anche brutale. Ma penso si vedessero di nascosto, si cercavano a vicenda».
E poi cosa cambia?
«Che anche lei viene sistemata con la bambina in una comunità protetta. Dopo un po’ lo chiama chiedendogli di portarla via, dicendo che lì li trattavano male».
A lei non ha detto niente?
«No, l’ho saputo il giorno dopo quando la comunità ha fatto la denuncia, non vedendola tornare».
Poi 13 giorni di buio...
«Sì, non ho saputo nulla per tutto quel periodo. Finché domenica sera, sono venuti tutti e tre a casa mia».
Cosa è accaduto?
«Mia figlia mi ha detto che avevano deciso di andarsene via insieme. Poi, non appena lui si è allontanato, ha cambiato versione, dicendo che lui l’aveva tenuta sequestrata insieme alla bambina».
E lei ha chiamato la polizia?
«No. Si sono fermati a dormire lì, lei stessa la mattina dopo è andata in commissariato, per l’ennesima denuncia. E mi sono ritrovata i poliziotti in casa: lui tenta di scappare... ».
Cosa ne pensa di tutto quello che è successo?
«Non lo so. Forse è stata colpa dell’assistente sociale troppo severo, forse di lui o addirittura di lei. So solo che le voglio bene».
Ancora una volta l'ultima riga l'ho aggiunta di straforo, a pagina già passata mentre si stava per andare in stampa. Non so perchè, ma pare che i sentimenti qui non interessino. Una volta finito il caso e raccolto quello che serve, cosa accade a chi c'è coinvolto non interessa più....
Da qui ho imparato tre cose:
1) Che se non volete far sapere delle cose ad un giornalista, è meglio mandarlo al diavolo subito e non aprire più bocca. Fidatevi, capirà.
2) Che scrivere di cronaca è come camminare su un filo sottile, dove si rischia continuamente di cadere. Ma più vado avanti, e più scopro che mi piace per questo.
3) Che per me non è vero quello che disse in un libro il grande giornalista Richard Kapucinski, e cioè che "il cinico non è adatto per questo mestiere". Alla lunga credo sia impossibile non diventarlo: vedere e conoscere certe cose ti rende necessario dotarti di un qualche genere di corazza per proteggerti da esse.
L'importante è che quella corazza resti fuori e non ti entri nell'anima.
Quello è un prezzo che non vorrei mai pagare.
4 commenti:
Che bella storia, complimenti... hai al stoffa del giornalista...
Grazie Simone... Posto queste storie apposta perchè la gente possa leggerle, e capire anche da fuori cosa si provi...
Certe volte, come questa, ti capitano cosa che ti fanno veramente pensare un po', e mi sembrava egoistico non condividerle.
Se tornerai qui, sicuramente ne troverai delle altre, e spero che anche allora mi farai sapere che ne pensi!
Nell'attesa, grazie di essere passato di qua!
A presto!
Gig:)
Il vero giornalista è come l'anatomo patologo: scava, scava sino a scprore quelle verità non palesate e che. forse, spesso non possono essere dette. Complimenti, credo che vi sia in te molta stoffa per proseguire manetenedo la umana sensibilità.
Luciano
...se mi faranno proseguire, sarò lieto di farlo! Intanto, di nuovo, grazie a tutti per le belle parole: danno una spinta non indifferente ad andare avanti!
Posta un commento