Stamattina come quasi tutte le mattine per lavoro prendo la metro. Non c'è nemmeno bisogno di chiamarla "metropolitana" a Milano: è "la metro", per tutti. Linea rossa, fermata Loreto, pochi passi dalla redazione. Entro, respiro il fresco (la rossa è l'unica linea con l'aria condizionata che funzioni) e mi siedo tranquillo.
Dopo poco mi si siede di fianco un tipo: corporatura media, camicia rossa, jeans ipergriffati, capello laccato e carnagione abbastanza abbronzata. Italiano, avrei detto, probabilmente del sud Italia appoggiandomi agli stereotipi comuni: sopracciglia scure, baffi sottili e pizzetto, capelli neri, e lineamenti marcati ma non troppo. Si appoggia allo schienale e si distende, gambe aperte, braccia allargate, masticando qualcosa in bocca con fare nervoso.
Mi accorgo che la gente davanti e di fianco a lui comincia a guardarlo, in modo strano: occhiate furtive e subito l'abbassarsi degli occhi, quasi ad aver paura di esser colti sul fatto, posture cambiate velocemente con fare nervoso, occhi che indugiano sulle braccia tatuate quasi a cercare qualcosa che si sa, ci deve essere, ma è coperto astutamente.
"Buchi?", mi chiedo, senza sapere perchè. "Forse questa gente sa qualcosa che io non so, forse l'ha già visto, forse è un habituè della stazione e in parecchi l'hanno visto fare qualcosa di scomodo". Comincio a scrutarlo, piano anch'io. Qualcosa ci deve essere. Le scarpe, Nike, lucidissime e nere. I pantaloni, jeans grigio scuro, griffati con un logo incomprensibile per tutta la lunghezza appena sotto il tessuto, quasi in filigrana. Il cinturone, con una fibbia grande color dell'oro, più bronzo ad occhio e croce. La maglia rossa: una polo, bande nere sulle maniche, pulita e stirata ma pare il giorno prima, perchè un po' sgualcita. "Che lavoro fai? Chi sei, che non riesco a capirlo?". I capelli, un po' più radi di quanto mi fosse parso inizialmente, sempre scuri, probabilmente neri. "Cosa mastichi? A cosa pensi? Perchè sei così nervoso?".
Tutto il vagone lo guarda, quando arriviamo alla stazione di Cadorna. E' la mia. Mi alzo e mi metto davanti alle porte mentre il treno frena. Lui sempre fermo, imperturbabile. La gente a guardarlo: "Che farà? Scenderà? Cosa lo aspetta fuori?".
Scendo io, lui no. E fatti due passi mi accorgo di una cosa, semplice ed importante allo stesso tempo. Lo guardavo per chiedermi chi fosse, ma non mi sono chiesto perchè. Perchè lo guardavano tutti, perchè se tutti facevano così DOVEVA ESSERCI PER FORZA UN MOTIVO, e il motivo doveva essere anche giusto. Non buono o sensato, semplicemente giusto. Non lo guardavo per interesse mio: lo guardavo pensando alle cose più strane, e gli altri nel vagone come me. L'uno a sostenere e dare all'altro quella ragione che non c'era, quasi in un muto sostegno della nostra ricerca insensata di qualcosa di oscuro, misterioso, nato da qualcuno senza che ci chiedessimo perchè. A cercare di inquadrare quello che non so nemmeno dire se capissimo o meno, in uno dei tanti stereotipi che ci governano la vita: quello delle persone pericolose in metro, quello dei tossici insospettabili, quello di qualcuno che ha per forza qualcosa da nascondere, quello di vai tu a pensare cosa e perchè.
Credevo di essere diverso dagli altri: io giornalista, attento ai dettagli, sempre lì a ricordare che per ogni cosa c'è un perchè ed un motivo, che possiamo considerare insensato o meno ma che comunque esiste. Io, che prima di raccontare una storia cerco sempre di coglierne tutti i punti di vista e liberarmi dai pregiudizi, per scoprire l'ombra nel mezzo delle versioni di tutti, là dove si annida la verità. Io che guardo, ascolto, racconto, intervisto, dipingo e scrivo in punta di penna, cercando i fatti e non le versioni.
Credevo di essere diverso.
Ma sono caduto anch'io, alla prima distrazione, nella trappola del luogo comune.
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