Chi mi conosce sa che io le partite di calcio non le guardo mai. Solo una breve abbuffata di calcio ogni 4 anni in occasione dei mondiali e poi il pallone finisce di nuovo nell’oblio per il quadriennio successivo. Ieri sera però nonostante tutto nel corso dello zapping televisivo mi sono imbattuto nella diretta della partita Italia – Serbia allo stadio Marassi a Genova, ed ho visto
tutto quello che è successo e che oggi abbiamo saputo tutti. Dopo la partita è partito senza che facessi a tempo a spegnere la tv il solito, pesantissimo Porta a Porta. Tema di ieri, giorno dei funerali dei 4 alpini morti in un attentato, proprio l’Afghanistan. Con una sola domanda predominante a cui tutti pretendevano di saper rispondere: perché siamo lì?
E’ la stessa cosa che mi ha chiesto nel dormiveglia la mia ragazza, mentre sullo schermo il ministro Frattini declamava i 6 motivi fondamentali per cui gli italiani sono e devono ancora per non si sa quanto rimanere in quel paese lontano. “Gli italiani sono a combattere in una nazione dove nessuno sembra bene sapere cosa siano andati a fare, negli stadi la gente si mena e fa tutto fuorchè teoricamente quello che è venuta a fare, cioè vedere una partita. Ma in che razza di mondo siamo?”
Non so perché, ma dopo aver visto tutto quello che era accaduto in serata alla sua domanda ho risposto più o meno così:
“Vedi, in Afghanistan è successo in 9 anni quello che è successo allo stadio stasera. C’è una partita che si deve giocare (che potremmo paragonare al cosiddetto ripristino della democrazia in Afghanistan) e che tutti gli attori più o meno vogliono che si giochi, perché per vari motivi (soldi che girano, biglietti pagati, sponsor da un lato e governi, industria delle armi e scacchiere internazionale di alleanze dall’altro) tutti ne traggono interesse. Poi ci sono le forze dell’ordine ed i soldati, che sono messe lì per fare in modo che la partita in ambo i campi si possa giocare, gli osservatori degli organismi internazionali (UEFA da una parte e ONU dall’altra) che vigilano che tutto vada come deve, e gli ultras (o teppisti che dir si voglia) cattivi che sono come i talebani, e vogliono far saltare tutto per aria: vuoi per farsi vedere in mondovisione e far conoscere i loro slogan nazionalisti anti Kosovo in un caso, o vuoi per mantenere lo status di dominio del campo e la possibilità di mantenere la propria egemonia radicale dall’altro.
Alla fine ieri sera allo stadio è successo ne più ne meno - con le ovvie differenze – che è successo in questi 9 anni in Afghanistan: si voleva far giocare la partita della democrazia, con gli ultras talebani che tentavano di impedirlo e le forze dell’ordine a tentare di ripristinare il corretto funzionamento del gioco, sotto la guida degli osservatori internazionali. Anche qui un pugno di ultras – teoricamente inferiori per numeri e mezzi – è riuscito ad impedire con petardi e violenza lo svolgimento del match che tutti volevano. Prima hanno tentato di giocare le due squadre in campo, ma gli ultras non l’hanno reso possibile. Poi ha provato a intervenire la polizia, ma non sapeva bene cosa fare perché la posizione della tifoseria e la presenza di famiglie inermi nei settori vicini e nella stessa curva rendeva difficili gli interventi radicali di “estirpazione” dal territorio della frangia violenta. Si era pensato a cariche localizzate, interventi più “decisi”, ma non è stato possibile. Quindi, dopo un po’ di sguardi feroci i poliziotti si sono allontanati e hanno tentato di far ripartire il gioco in campo sperando che tra gli spalti ritornassero la calma e il buonsenso.Ancora invece, petardi dalla curva e minacce di sfondamento negli altri settori hanno fatto fermare il gioco, che comunque era partito in campo vistosamente falsato, con l’arbitro che non fischiava falli alla squadra serba (di cui gli ultras erano teoricamente tifosi) per non far infiammare ancora di più la situazione nella curva. L’unica differenza è che – al contrario di quello che è successo a Kabul – almeno nello stadio le due frange non si sono affrontate - nemmeno in scaramucce - e non ci sono stati ne morti ne feriti. Nessuno in campo a quel punto – in quella situazione di stallo – sapeva più che fare. “Dobbiamo giocare – dicevano gli uni – perché fermarsi ora è come dargliela vinta e dimostrare loro che sono i più forti”. “Dobbiamo sospendere – rispondevano gli altri – perché in queste condizioni il gioco comunque sarebbe falsato, e non avrebbe senso: una partita non si può giocare così!”. Gli osservatori internazionali, nota più grave di tutte, non sapevano neanche loro cosa fare, divisi tra le due fazioni.
"The Show must go on”, sembrava essere la parola d’ordine, anche a dispetto di ciò che accadeva in campo e fuori. Nessuno - tantomeno il delegato UEFA, carica più alta in grado in quel momento nella scala della diplomazia - ha dichiarato lo stop definitivo alla partita: per due ore è stato un balletto di “si gioca – non si gioca”, con i potenti di turno a decidere come muovere le truppe sul campo per non darla vinta all’opposta fazione. Il balletto non è finito neppure quando l’arbitro scozzese Thomson ha deciso di dire basta a tutto questo, assumendosi la responsabilità che nessuno voleva prendere. “Basta, finisce qui. E’ due ore che siamo fermi e non si va da nessuna parte. Non lo vedete?”: nessuno ha voluto vedere, e si è andati avanti ancora un’ora buona, aspettando che i delegati UEFA, i commissari alla sicurezza e i grandi nomi della FIGC accettassero le decisioni di questo piccolo arbitro che alla fine ha voluto chiudere la partita di testa sua, costringendo gli altri ad andargli dietro.
Beh, vedi, in Afghanistan – a differenza che a Genova – l’arbitro non è ancora arrivato, e si è ancora nella fase in cui tutti vogliono a parole giocare quella maledetta partita. Anche se poi nei fatti nessuno sa come farlo perché gli ultras talebani, pure allontanati con cariche e contrattacchi, sono ancora lì. Anzi, hanno pure guadagnato qualche gradino perché - come al Ferraris – i giocatori afghani pur di calmarli hanno fatto qualche passo con il loro capitano Karzai lanciando proclami nazionalistici nella loro direzione. Anche se al pubblico e agli osservatori internazionali questo non è piaciuto, non hanno potuto far altro che stare a guardare.
Perché siamo lì? Per far giocare la partita, ci dicono. Perché andiamo con le armi ad una partita? Perché è l’unico modo per farla giocare, ci dicono ancora. Perché non siamo ancora riusciti a farla giocare? Come a Genova, fino ad ora non si è potuto, ne si sa quando si potrà farlo.
Come a Genova infatti, nessuno degli attori impegnati sa bene che fare per sbloccare la situazione, nemmeno gli alti papaveri dell’establishmenti mondiale, se non sperare che arrivi anche tra le montagne dei pashtun una persona piccola piccola come il signor Thomson a dire che basta, tutto questo non ha senso e non si gioca più.
Lo so, dirai, la cosa non è certo così semplice: una partita di calcio non si può certo paragonare ad una guerra (o missione di pace che dir si voglia) che in 9 anni ha ucciso migliaia di persone. E’ da stupidi cercare analogie tra due cose che sono in fondo completamente diverse. Lì il campo di gioco non è fatto di erba verde, ma di valli e grotte nascoste tra le montagne, gli spettatori non sno migliaia ma milioni di persone inermi, e non si gioca con un pallone ma con mine e fucili, e bombe devastanti. E chissà cosa mi è saltato in testa ieri sera quando ho unito – nel dormiveglia di Porta a Porta e del ministro Frattini che parlava come un fiume in piena – queste due cose così distanti tra loro. Non sapevo bene come spiegartelo, e così mi sembrava quasi logico”.
Però oggi un altro interrogativo non smette di frullarmi in testa, mentre il ministro Frattini ha finito di parlare, Porta a Porta è finito, la notte è passata e a Genova la guerriglia è finita e si contano – adesso sì – anche i feriti: non è che magari - come a Genova - il signor Thomson in Afghanistan c’era già arrivato, e nessuno dei presenti in campo lo abbia ascoltato?