In libreria i testi sull'argomento crescono come funghi dopo la pioggia, e nei blog e nella rete il dibattito si fa sempre più forte, di solito con un solo interrogativo: "Quando li aboliamo?".
Dalle inchieste della Gabanelli ai libri di Gomez, Travaglio, Stella e tutti quelli che mi dimenticherò di citare emerge infatti più prepotentemente di tutto il resto solo la realtà di un sistema andato completamente o quasi in malora, con finanziamenti dati a chi non ne avrebbe bisogno e potenti di ogni genere pronti ad ogni mistificazione pur di ottenere il proprio "soldino".
Questo però spesso fa dimenticare una cosa fondamentale: perchè i contributi all'editoria sono stati creati? A cosa dovevano servire, prima della loro corruzione in inutili elargizioni?
Ho trovato sul web, sul sito di Megachip, un articolo a firma di Marco Niro che voglio condividere con voi. Il titolo? "Quel pasticciaccio brutto dei contributi all'editoria". Dentro è spiegato tutto: leggetelo...
E magari la prossima volta che sentirete parlare qualcuno di questo tema, potrete rendervi conto di quante cazzate si sentano a volte, purtroppo non solo su questo...
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"Quel pasticciaccio brutto dei contributi all'editoria". (Marco Niro, Megachip. Qui il link all'originale)
La civiltà di un Paese si può valutare anche guardando ai contributi che esso stanzia per il pluralismo della propria informazione? Se così fosse, dovremmo avere un'opinione piuttosto bassa della civiltà dell'Italia. Quella dei contributi all'editoria è una pratica che è passata, negli ultimi anni, dalla oscura nebulosa che l'avvolgeva fittamente, rendendola ignota prima ancora che incompresa, a un diffuso sentimento pubblico di condanna dal sapore spesso qualunquistico, che non ha d'altra parte aiutato ad aumentarne la comprensione.
Il Paese dell'Informazione
Facciamo un esempio terra terra, per permettere a tutti di capire meglio di cosa stiamo parlando. Immaginiamo di vivere nel Paese dell'Informazione, dove esistono 10 imprese private che fanno informazione, 3 tv e 7 giornali. Queste 10 imprese operano in condizioni di mercato del tutto libero, e vivono esclusivamente delle vendite: di pubblicità e, per i giornali, delle copie.
Gli inserzionisti pubblicitari, che guardano al portafoglio, decidono di investire tutti i loro soldi in televisione, perché il pubblico guarda quella e legge poco. I 7 giornali protestano duramente, dicendo che così li si costringe a chiudere, con perdita di pluralismo (e lesione del dettato costituzionale).
Segue quindi il primo intervento del legislatore a correggere il mercato editoriale: per legge, almeno un quarto degli investimenti pubblicitari dovrà finire alla stampa. Ma anche così i 7 giornali arrancano, stremati dalla concorrenza televisiva. Cinque di loro trovano subito la soluzione: diventare attraenti, come la televisione, o quasi. Inseguirla a colpi di informazione spettacolarizzata, gridata, intrisa di gossip e di gadgets. Diminuisce la qualità dell'informazione, ma aumentano i lettori, e i bilanci tornano a quadrare, anzi diventano floridi, per la gioia degli editori.
E gli altri 2 giornali? No, quelli hanno deciso di non compromettere la qualità della loro informazione, e di continuare a privilegiare l'approfondimento e l'inchiesta, per quanto meno attraenti per il pubblico, che infatti diminuisce, e con esso gli investimenti pubblicitari. I bilanci iniziano ad avere buchi enormi e allora i 2 giornali decidono di farsi sentire, perché la loro chiusura significherebbe perdita di pluralismo (e lesione del dettato costituzionale).
Ed ecco il secondo intervento del legislatore a correggere il mercato editoriale. I 2 giornali hanno ragione, meritano un finanziamento pubblico. Cioè, meritano che la collettività decida di contribuire alla loro esistenza come si contribuisce all'esistenza del trasporto pubblico o del servizio di approvvigionamento di acqua nelle case. In altre parole, meritano tutela in nome della massima di Victor Hugo: “Non essere ascoltati non è un buon motivo per tacere”.
Un bene per il pluralismo
Il finanziamento all'editoria nasce dunque dall'esigenza di finanziare chi decide di non trattare l'informazione come una merce al pari delle altre, per permettere anche a tali soggetti di farsi udire. Il finanziamento pubblico all'editoria, quindi, di per sé, non è qualcosa di negativo. Tutt'altro. Senza di esso, rimarrebbero udibili solo le voci di chi confeziona un'informazione attraente, dipendente dagli imperativi del mercato, non importa se di qualità o meno.
Peccato che interventi come quello di Milena Gabanelli, che al tema ha dedicato una puntata di “Report” nel 2006, e di Beppe Lopez, che invece nel 2007 vi ha scritto un libro (“La casta dei giornali”, Stampa Alternativa), nella foga di condannare l'attuale regime di finanziamento pubblico all'editoria, abbiano finito col gettare via il bambino con l'acqua sporca, o almeno con l'indurre gli spettatori e i lettori a farlo: l'impressione ricavabile e ricavata dai più è stata: “è una porcheria, meglio abolirlo”. Le loro documentate inchieste sulle storture del sistema, infatti, non sono purtroppo state precedute da una premessa a nostro avviso essenziale e doverosa: il finanziamento pubblico all'editoria (se erogato correttamente) garantisce il pluralismo.
La domanda chiave non è dunque “finanziare o no l'editoria?”, ma “chi finanziare?”.
La risposta sembrerebbe piuttosto semplice. Siccome io legislatore ti finanzio perché tu non vuoi, per scelta, mercificare la tua informazione, ti chiederò di rinunciare alla possibilità di ricavare utili dalla stessa. E siccome chi non vuole fare utili con l'informazione in genere non trova un editore disposto a stipendiarlo, io legislatore finanzierò solo i giornali di proprietà dei giornalisti che li scrivono, ovvero le cooperative di giornalisti (i cui soci siano tutti giornalisti e che associno almeno la metà dei giornalisti dipendenti). Inoltre, io legislatore mi accerterò di due cose: primo, che i tuoi ricavi pubblicitari non superino una determinata percentuale dei tuoi costi (bisogna infatti scegliere: o ci si fa finanziare dalla pubblicità o dalla collettività); secondo: che tu abbia davvero un pubblico, per quanto ristretto, perché non voglio finanziare “giornali fantasma”, che non vengano acquistati e letti da nessuno: ovvero, mi accerterò che almeno una parte delle copie da te stampate sia effettivamente acquistata a un prezzo di mercato (non simbolico!): poniamo una copia su quattro.
Tutto qui. E invece, cosa è accaduto? Che, anziché scrivere una norma di questo genere, semplice e stringata, il legislatore abbia prodotto, negli ultimi venticinque anni, un coacervo di leggi, leggine, codici e codicilli - sovrapponibili, incastrabili e scomponibili – che han reso la materia disorganica e incomprensibile, talvolta persino agli stessi addetti ai lavori. Questo caos ha portato con sé, in taluni casi, un allargamento eccessivo delle maglie, che ha ammesso al finanziamento anche chi non lo meritava, e in certi altri casi una loro assurda restrizione, che ha tagliato fuori chi ne aveva davvero bisogno. Facciamo alcuni esempi concreti, per capirci.
Maglie sciaguratamente larghe
Il legislatore ha ammesso al contributo non solo le testate edite da cooperative giornalistiche, ma anche quelle possedute a maggioranza da cooperative, fondazioni o enti morali non aventi scopo di lucro. Conseguenza? Possono avvalersi del contributo anche Avvenire , quotidiano della potente Conferenza Episcopale Italiana, che giuridicamente è una fondazione e si “merita” 6 milioni di euro di contributo (questa e le seguenti somme si riferiscono all'anno 2003), e ItaliaOggi , quotidiano della ClassEditori, gruppo quotato in Borsa, ma formalmente posseduto al 50,1% dalla coop Coitalia, che si ingoia 5 milioni di contributo. Bisognosi? Non diremmo…
Come non sono certo bisognosi i grandi gruppi editoriali che però incassano pure loro ingenti contributi. La legge, infatti, li prevedeva per la carta (fino al 2005), e li prevede per le spese telefoniche e postali. Tali finanziamenti sono erogati “a pioggia” (si parla di contributi indiretti): cioè, ne ha diritto chiunque, al di là di assetti societari e bilanci. Così, il 70% dei fondi pubblici destinati all'editoria (circa 450 milioni l'anno sui complessivi 700 erogati) se ne va nelle casse di grandi gruppi “for profit” come “Editoriale-L'Espresso” e “RCS”. Precisamente, oltre 23 milioni di euro vanno al Corriere della Sera , quasi 20 a Il Sole-24 Ore, oltre 16 a la Repubblica .
Il legislatore ha poi ammesso a contributo anche i giornali di partito. Giusto? Sbagliato? Evitiamo di addentrarci nella risposta (che presupporrebbe un ragionamento più ampio sul finanziamento pubblico ai partiti), limitandoci a rilevare le falle del finanziamento a questa categoria di giornali.
Per ricevere il contributo, il giornale di partito, oggi, deve legarsi a un gruppo parlamentare. Ma ricordiamo che il legislatore ha dissennatamente permesso, fino all'anno 2000, che il contributo finisse anche a quelle testate organi di movimenti politici sostenuti anche solo da due parlamentari italiani. Conseguenza? Si è verificata la moltiplicazione dei “movimenti politici”, esistenti solo nella fantasia di chi ne ha trovato i nomi, spesso davvero pittoreschi. Così, sostanziosi contributi sono finiti a rimpinguare le casse di quotidiani come Il Foglio , organo del movimento politico “Convenzione per la Giustizia” (3,5 milioni di euro di contributo) o Libero , organo del “Movimento Monarchico Italiano” (oltre 5 milioni di euro). Nel 2000, lo scandalo si chiudeva… “all'italiana”: la norma veniva abrogata, ma le testate che avevano già ricevuto contributi in quanto organi di movimenti politici avrebbero potuto continuare a riceverli trasformandosi in cooperative. Tutte più o meno fasulle, e per nulla giornalistiche, ovviamente.
Va poi rilevata la disparità di trattamento oggi esistente tra i giornali di partito e i giornali editi da cooperative, in relazione al requisito delle vendite. I giornali editi dalle cooperative devono vendere almeno il 25% delle copie stampate se testate nazionali e almeno il 40% se locali. Invece i quotidiani di partito non sono sottoposti a questo vincolo, e potrebbero, per assurdo, anche regalare tutte le copie che stampano. E questo nonostante parte del contributo sia erogato proprio in base alla tiratura! Risultato? L'Unità , giornale dei DS, vende 60.000 copie, ma ne stampa più del doppio, per arrivare ad assicurarsi oltre 6 milioni di euro di contributo. Ancora più eclatante il caso di Europa , giornale della Margherita, che vende poche migliaia di copie, ma ne stampa 30.000, arrivando a incassare oltre 3 milioni di euro.
E che dire proprio del requisito imposto alle cooperative di vendere almeno una copia su quattro di quelle stampate? Questo vincolo oggi può essere (e viene) aggirato allegramente: basta vendere sottocosto. Così, ad esempio, l'Opinione delle Libertà , già organo del “Movimento delle Libertà per le garanzie e i diritti civili”, tira 30.000 copie e, per vendere le 7.500 necessarie a papparsi il contributo di 1 milione e 700.000 euro, le piazza sottocosto, a 10 centesimi l'una. Oppure, si esce in abbinamento a testate realmente vendute in edicola, facendo il cosiddetto “panino”: con questo sistema, i quotidiani locali del gruppo Ciarrapico ( Ciociaria Oggi , Latina Oggi e Oggi Nuovo Molise ), che escono in abbinamento con Il Giornale , riescono a garantirsi contributi compresi fra i 2 e i 2,5 milioni di euro.
Maglie sciaguratamente strette
Fin qui, le critiche alle maglie larghe della legge, quelle denunciate da Gabanelli, Lopez e molti altri in questi ultimi tempi. Ma raramente, accanto alla critica alle maglie larghe, si è affiancata l'altrettanto doverosa critica alle restrizioni inserite senza apparente ragione e con grave danno proprio per chi del contributo avrebbe più bisogno.
Partiamo dall'assurdità più grande: per ricevere il contributo, la cooperativa giornalistica deve editare la testata da almeno 5 anni. Non si vede quale cooperativa possa fondare un giornale e tenerlo in vita per 5 anni senza alcun sostegno, con la prospettiva di ricevere, se tutto va bene, alla fine del settimo anno i contributi relativi al sesto anno di vita. Questa norma non è altro che un modo per escludere dall'accesso al contributo tutti i nuovi soggetti. E, assurdità nell'assurdità, se cambi periodicità, riparti da zero. Ovvero, ipotizzando che un quindicinale che già percepisca i contributi voglia diventare mensile (anche per ridurre i costi), dovrà lasciar passare 5 anni per poterli ricevere nuovamente. Dovrebbe invece accadere il contrario. E' proprio all'inizio del percorso che una cooperativa giornalistica dovrebbe poter beneficiare del contributo più cospicuo, che poi potrebbe anche ridursi progressivamente, una volta trascorso il periodo iniziale di 5 anni necessario al rodaggio.
Altra assurdità: per ricevere il contributo, è necessario far certificare il bilancio da una società di revisione iscritta all'apposito elenco della Consob. Se per una testata nazionale questo implica una spesa relativamente bassa, per una testata locale può comportarne una insostenibile.
Dovrebbe esserci una differenza (che non c'è) tra il regime contributivo per le piccole cooperative, locali, e quello per le grandi, nazionali, che tirano più copie e fatturano di più. Questo è ancora più vero se si pensa a un ulteriore requisito che verrebbe introdotto dalla nuova disciplina in materia di contributi all'editoria, da mesi ferma in Parlamento in attesa di essere approvata: si tratta dell'obbligo di avere alle proprie dipendenze almeno 5 giornalisti se testate quotidiane e 3 se testate periodiche. La ragione per cui si è pensato di introdurre questo requisito è di per sé valida: si vuole evitare che il contributo finisca a giornali di poche pagine fatti da redazioni “inesistenti”, farcite di precari e di giornalisti prestanome. Ma è evidente che, se per una grande testata il costo di 5 (o 3) giornalisti non è solo sostenibile ma necessario a confezionare un buon prodotto, per una piccola, magari locale (appunto), sarebbe insostenibile e anche superfluo. Per evitare di finanziare le “redazioni fantasma”, sarebbe meglio, allora fare come suggerito da Mediacoop (l'Associazione nazionale delle cooperative editoriali), ossia variare il contributo sulla base del numero di giornalisti dipendenti assunti dal giornale: più ce ne sono, più sarà alto.
E che dire, infine, dell'ostacolo rappresentato dall'esistenza degli stessi contributi indiretti di cui beneficiano soprattutto le grandi imprese editoriali “for profit”? Si pensi che ben 270 milioni di euro finiscono ogni anno, a pioggia, nelle casse di oltre 7.000 testate, come contributo alle spese postali. Se, come suggerito sempre da Mediacoop, il diritto a tale contributo venisse concesso solo alle imprese che rinuncino alla distribuzione degli utili, gran parte della somma potrebbe essere risparmiata, e servire, ad esempio, a finanziare i primi 5 anni di vita di una nuova cooperativa giornalistica, come si diceva sopra.
3 commenti:
Assolutamente d'accordo.
Anche se è pure vero che una testata dopo 5 anni di contributi possa chiudere e poi riaprire sotto un altro nome - e quindi rendendo infinito il tempo dei contributi - allo stato attuale delle cose è già così. Quindi tanto vale provarci.
Grazie per il commento Bisco, ma soprattutto grazie per la pubblicità! sta piovendo gente sul blog un po' da tutte le parti d'Italia!
Ho visto i tuoi blog, in particolare quello del "Corriere del web": veramente ben fatto, complimenti!
Per chi fosse arrivato fin qui leggendo l'articolo, invito tutti a visitarlo! Mi riservo di prendermi un po' più di tempo per guardarlo meglio, e magari dedicarci anche un post!
A presto, spero ripasserai di qua!
Gig:)
Come fanno i giornali stranieri che sono addirittuta di qualità superiore a quella dei nostri a, non solo rimanere aperti, ma drririttura a guadagnare senza finanziamenti pubblici?
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