Avevo scelto di lavorare per la Provincia per poter avere uno spazio dove raccontare queste storie che non fosse solo questo blog, per poterle fare conoscere a più gente possibile. Perchè mi faceva raccapricciare il fatto che un clochard come Luciano, di cui tutti ignoravano l'esistenza, potesse davvero un giorno morire bruciato in una città civile senza che nessuno se ne accorgesse. Senza che nessuno sapesse la sua storia, e sapesse come era arrivato lì. Per fare in modo che nessuno potesse etichettarlo come "un altro miserabile barbone senza nome, che se è sparito è meglio perchè sporcava e basta". Per ridargli il nome a cui aveva diritto
Mi è piaciuto scrivere questa storia anche per far capire alla gente cosa ci sia davvero dietro a queste persone, ed aiutarle nel mio piccolo a non cadere nella solita retorica che oggi va tanto di modo dell'extracomunitario "ladro e problematico", che tanto viene agitata come bandiera da molte formazioni politiche.
Luciano l'ho incontrato per caso mentre cercavo di non farmi vedere dalla polizia dopo un servizio che avevo fatto (ma questa è un'altra storia), ed ha accettato di raccontarmi la sua storia davanti ad un caffè. L'unica cosa che non ha voluto è stata farsi fotografare: aveva paura che chi aveva tentato di dargli fuoco tornasse di nuovo.
Ora sa che non è più solo, perchè sa che se succedesse qualcosa la gente saprebbe perchè. E' una delle cose che mi ha spinto ad abbracciare questo mestiere a volte infame che è quello del giornalista, e che mi spinge nonostante tutto a non mollarlo mai, per quanto difficile possa essere raccogliere e raccontare queste storie.
Ora lo conoscerete anche voi. Perchè uno come Luciano, da qualche parte, una volta nella vita, l'abbiamo visto tutti. Ed ignorato in troppi.
STORIA DI LUCIANO, CHE VIVE SOTTO UN PONTE
Luciano ha rischiato di morire orribilmente bruciato una settimana fa, quando qualcuno ha fatto colare del liquido infiammabile sotto il bordo del cavalcavia della rotonda dei Longobardi da dove vive da tre anni come senzatetto e senza pensarci un attimo gli ha dato fuoco. Se l’è cavata perché a quell’ora era ancora in giro con altri clochard, ma ha visto bruciare le proprie cose senza poter fare niente. Nessuno l’aveva mai notato prima, e nessuno l’ha notato nemmeno dopo quando spente le fiamme si è avvicinato, ha rimesso tutto a posto ed è tornato lì. Invisibile come prima, ma con un po’ più di paura.
Quella di Luciano - all’anagrafe Lucien G., senzatetto rumeno di 41 anni - che ora vive in uno spazio largo un metro dove non c’è copertura da vento e pioggia salvo un misero angolo di cemento bianco è una vita avventurosa che comincia nel
E’ così fino al 2000, quando lavorando in un cantiere a Sesto Marelli ha un incidente alla mano che gli cambia la vita. Luciano si taglia una mano con il vetro di una finestra. E’ un taglio profondo, ma essendo clandestino non si fida ad andare in ospedale e lo lascia guarire da sé. La mano però non torna come prima, e per lui anche la vita da muratore si chiude. “Allora - racconta - ho vissuto di quel che trovavo: raccattavo vecchi mobili per 5 euro al giorno, e recuperavo ferro e legno per pochi soldi”. Dorme dove capita, anche nei campi rom milanesi che vanno a fuoco nei tristemente famosi pogrom anti rom. Nell’incendio di un campo perde anche i documenti, che diventano cenere come la baracca in cui viveva. E da lì ancora clandestinità, sempre peggio, sempre più sfruttato da gente che non lo paga più nemmeno in soldi ma soltanto in cibo.
Un pomeriggio di luglio del 2006 prende la bici e scappa da Milano, e pedalando arriva fino a Pavia, e al cavalcavia dove vive ora. “Un paradiso: qui nessuno mi conosceva, e potevo stare in pace”. Per sopravvivere lo aiuta
Fino alla settimana scorsa, e al fuoco che per poco non lo portava via con sè. Luciano, 41 anni, occhi castani sorridenti e qualche capello bianco, però è felice di quello che ha. Vorrebbe solo un lavoro per poter mandare a casa qualche soldi al padre e ai fratelli che non vede da quando è partito tanti anni fa. Non ha paura che chi ha tentato di dargli fuoco torni di nuovo. “Me la sono cavata – dice - era destino. Spero che nel mio destino ci siano tante altre cose belle, ma intanto credo in quel poco che ho”. Come l’angolo bianco del cavalcavia.
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